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Storia

I grandi campioni del tennis, gli incontri e le rivalità che hanno segnato la storia del tennis, i tornei più blasonati e i record imbattuti.

Era un profilo tagliato con la severità di uno scalpello ed il frammento di un’iride (avrei giurato di un azzurro freddo e tenue come di un turchese carico) che tra una frase e l’altra guizzava sotto i bordi dello stahlhelm. Era una voce d’una calma esasperata, quasi irritante, che metteva in fila una parola dietro l’altra senza nessuna fretta o esitazione. Ogni parola perfettamente scandita e sufficientemente distaccata dalla precedente come dalla successiva, ogni parola immersa in quella calma lontana e pronunciata senza l’ombra d’una semplice inflessione, ogni parola al suo posto in quelle frasi brevi, avvolte da lunghe pause. Lontane dai dialetti secchi e veloci che affollano le banchine di Amburgo, quanto dalle stanche vocali aperte che riempiono la bocca agli svevi, in salvo dalla cadenza violenta dei prussiani come dal terrificante Donaubairisch austriaco tanto caro al Fuhrer. Tradiva una leggerissima, inconfondibile vena berlinese nei periodi più lunghi, inconfondibile, s’intende, per un berlinese nato e cresciuto non oltre Potsdam, non per uno svevo, un bavarese e figuriamoci per un austriaco.
L’alito di quella cadenza, che insieme ad un’impercettibile sfumatura sassone si insinuava tra le crepe sottili del suo Hochsdeutsch al limite dell’accademico, me l’aveva reso vagamente familiare.

M’ero azzardato a chiedergli l’ora. Notavo la minuta cassa d’acciaio di un orologio da polso tra l’orlo verdastro della sua manica sinistra e la penombra del camion. Non negherò, non era stato solo il bisogno di sapere che fossero le sei e trentuno di un mattino gelido, sulla strada bloccata dal fango da qualche parte tra il Dnepr e il Don a forzarmi a rivolgere la parola all’uomo seduto alla mia destra nel retro del camion. Ne ero inspiegabilmente attratto e non sapevo neanche il perché. Si era girato e m’aveva risposto, allungando l’avambraccio verso di me.

Erano le sei e trentuno sul quadrante bianco e tondo che ora avevo sotto gli occhi.

“Grazie. Davvero un bell’orologio”.

“Trova?”. Nei suoi modi c’era quella cortesia impeccabile, lieve e fredda come i fiocchi di neve comune a certi clienti che, di tanto in tanto, capitavano al negozio negli orari più insoliti e meno affollati.

“Si, un gran bell’orologio”. E mi illudevo di penetrare la nebbia di quella cortesia che lo avvolgeva con la scusa del cinturino di coccodrillo nero o delle lancette sottili. Ma nonostante dovessi sembrare assai goffo o indiscreto, forse per noia, forse per troppa cortesia, forse perché in fondo con i clienti ci avevo sempre saputo fare, il padrone dell’orologio non si fermò e mi disse di più.

“È un regalo, viene dalla Francia. Un regalo di un caro amico. Ho ragione di credere che l’avessero fabbricato a Le Havre sebbene io l’abbia ricevuto a Parigi, anni fa ormai. L’acciaio e la sottigliezza della cassa mi ricordano altri splendidi esemplari di un orologiaio che viveva proprio lì e che ho potuto ammirare su diversi polsi in parecchie occasioni”.

E l’aveva detto senza perdere di vista il giro della lancetta dei secondi, sfiorando con l’indice destro l’acciaio della cassa, così insolitamente sottile, come a volerlo accarezzare, come si fa con un passero, con il timore che sarebbe potuto volargli via dal polso da un momento all’altro. Continuai, ignorando del tutto la mia indiscrezione. “Le capita spesso di viaggiare?”.

“Si, più o meno, anche se da anni vivo a Berlino, da quando vi andai per gli studi. Ma sono cresciuto in campagna, tra la Bassa Sassonia e lo Schleswig-Holstein. E lei? Mi deve scusare, non conosco neppure il suo nome, comunque, può chiamarmi Gottfried”.

Si chiamava Gottfried, e la cadenza di chi vive tra i berlinesi ormai da troppo tempo, seppur impercettibile, non avrebbe mai potuto ingannare me, Otto Schulz, che sono nato e cresciuto a Falkensee, che lavoro (anzi lavoravo) nel negozio all’angolo di Friedrichstrasse. Gli stringo la mano e con il miglior contegno che riesco a darmi lo guardo negli occhi: “Otto, Otto Schulz, e fino a un anno fa ero un sarto”. Non ero solo un sarto: non avrei voluto peccare di superbia, ma avreste stentato a trovarne di migliori.

 

E questo Gottfried avevo l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Quel suo modo di parlare, la serenità studiata del suo portamento mi erano quasi familiari, ne ero sicuro, ma come non avrebbero potuto esserlo ad un sarto di Friedrichstrasse? La misura di spalle e fianchi, di gambe e braccia, per non parlare degli infiniti aggiustamenti in corso d’opera che anche il più banale dei pantaloni richiede di continuo, non potevano essere delegati alla servitù ed obbligavano alla presenza costante sotto aghi e gessi, uno stuolo di “von” o di clienti abbastanza ricchi da sembrarlo in persona. Non passavano mai più di venti minuti tra l’orlo dei calzoni di questo o quel Freiherr e i bottoni della camicia di questo o di quel Graf, tra il fazzoletto di seta del Prinz ed il cappotto del generale. Il gesso finiva presto e le forbici andavano affilate più volte alla settimana, addirittura cambiate ogni mese.

Nonostante i miei soli ventott’anni, da troppi ne guardavo i “von” andare e venire dalla porta all’angolo di Friedrichstrasse per non distinguerne uno, ed ero abituato se non a quella cortesia, a quel portamento inconfondibile. Sarei stato pronto a giurarlo, e conoscevo il suo nome da appena cinque minuti, quel Gottfried era un “von”. Conte, barone, duca, principe? Chi poteva dirlo, ma se c’era una cosa che avevo imparato cucendo vestiti addosso a molti di loro, intelligenti o stupidi, belli o brutti che fossero, era riconoscere il portamento. Quel modo di tener dritte le spalle, di camminare e di sedersi a cui vengono abituati sin da piccoli e che non li lascia anche nei più insignificanti dei gesti come un marchio a fuoco. Col tempo ho capito che l’unica differenza tra tutti quei “von” e quelli che non lo erano era il tenersi addosso come si deve una bella giacca di cotone. Vi par così poco?

“Sarto dice?”, tradiva un’ombra di interesse nella voce, come se una piccola parte della nebbia fine e gelida che avvolgeva ogni parola fosse stata per sciogliersi.

“Ho avuto il piacere di imparare l’onorevole arte che ero ragazzo, a bottega dal vecchio Koeller e sua moglie. Mi creda, caro Gottfried, le dita migliori di tutta Berlino e forse, senza che si offendano a Savile Row, di tutt’Europa. Le avesse toccate, anche senza vederle, anche solo sfiorate col dorso della mano, le camicie che finivano ogni mattina sulle spalle del Kronprinz e del Kaiser in persona! Tutta opera di Herr Koeller, anni prima che le sue mani iniziassero a tremare e che la sua vista iniziasse a non distinguere la cruna dal filo! Opere d’arte caro Gottfried, tutta opera del vecchio Koeller e di sua moglie!”. Mi ero lasciato trasportare un po’ troppo, attirando gli sguardi stanchi di un paio di commilitoni, scordandomi del rullare del camion sullo sterrato.

“Non ne dubito, Otto, non ne dubito, nella mia vita sono stato sufficientemente fortunato da ricevere le attenzioni dei sarti più chiacchierati di Londra e le posso dire, in tutta onestà, che nessuno di loro pareggia certe forbici silenziose dei nostri viali. In Friederichstrasse...”.
Ormai trattenevo a fatica l’orgoglio ed il nome così familiare della strada in cui avevo passato gran parte della mia vita mi portò ad interromperlo nell’ultima delle sue pause misurate. “Il negozio di Herr Koeller sta all’angolo di Friederichstrasse! Se ne ricorda, per caso? Scommetterei che ci è entrato almeno una volta!”.
Gottfried fu travolto dalla mia irruenza, la mia ansia ora incontrollata di capire perché quel suo viso continuasse a sembrarmi così terribilmente vicino ad un ricordo.

S’arrestò qualche secondo di più: “Le confesso, Herr Schulz, gli ultimi anni non sono stati dei più facili per me, capirà, la memoria mi inganna sui tempi di Berlino. Le prometto, appena mi sarà tornato a mente qualche particolare, glielo dirò, perché questo Koeller di Friederichstrasse di cui mi parlate non dovrebbe essermi del tutto nuovo”. Gottfried non aveva perso un filo della sua calma, a cui stavo cominciando ad abituarmi. “Dica, però, continui, che ne è del vostro Herr Koeller e del negozio?”.

“Al momento ne so quanto lei, ma da quando Herr Hitler era diventato cancelliere le cose erano cambiate un bel po’. Sa, Gottfried, la nostra arte vuole la vista del falco, la leggerezza della piuma... e l’occhio e la mano del vecchio Koeller non erano più quelli dei tempi gloriosi. Già da qualche anno non ero più un semplice apprendista, anzi di quasi tutti i clienti ci occupavamo io, Frau Koeller e un paio di garzoni. Col passare dei mesi la situazione era sempre più nera... importare i tessuti costava sempre di più e nel giro di altri due anni il vecchio Koeller era diventato quasi cieco, anche i tremori, andavano sempre peggio, dopodichè alla fine del ’38 in negozio eravamo rimasti in due”

“In due?”.

“Si, in due. Io e il vecchio. Di clienti ne erano rimasti cinque o sei. Uno dei garzoni era sparito da un giorno all’altro, l’altro si era arruolato e Frau Koeller”... mi bloccai e, mi ricordo, abbassai lo sguardo, gli occhi mi caddero sugli scarponi “prima di sposarsi aveva la sfortuna di essere Fraulein Horowitz”. Intanto le sentivo, le pupille di Gottfried posarmisi addosso: “Avrà capito, queste cose prima o poi si vengono a sapere. La arrestarono”.

Il mio interlocutore continuava a non muovere un muscolo. Che fossi stato così incosciente da andare a raccontare tutto al primo volto vagamente familiare? Di quei tempi si poteva essere più stupidi di come lo ero appena stato? C’erano cose da dire, tante altre da tenersi dentro, forse troppe le seconde. Per quanto ne so, quelle sono sempre troppe.
Provai a forzare il silenzio un’altra volta. “Non la vidi più e non la vide neanche Herr Koeller, che già non vedeva più niente di suo”. Alzai gli occhi e lì, dove li avevo lasciati prima di calare i miei, c’erano gli occhi di Gottfried, immobili. Mi davano l’impressione che li avesse attesi, proprio lì a mezz’aria, dove sapeva che prima o poi li avrei rialzati. Continuava a non dire una parola e doveva trovarsi perfettamente a suo agio, senza mai forzare il silenzio. In seguito avrei capito, avrei capito che quel Gottfried, coi suoi occhi velati d’acqua gelida, stava semplicemente dalla meno affollata delle due parti in cui gli uomini si dividono al momento di aprire bocca. Per tutti o quasi, in una frase ci sono le parole e tra le parole squarci di silenzio. Avrei capito che per quelli come Gottfried nella stessa frase c’è il silenzio, squarciato dalle parole.
“Mi è rimasto poco a casa, forse quel che resta della sartoria e due stanze a Falkensee, non ho avuto più notizie da Herr Koeller. E lei Gottfried, quando la guerra finirà?”.

“Vede, caro Otto, tendo a non pensarci, ho lasciato qualche vecchio avversario, qualche compagno di gioventù. Non so cosa potrebbe esserci ad aspettarmi, se e quando mi capitasse di tornare a quella che dovrei chiamare casa. Mi limito a sperare, di tanto in tanto, che qualcuno dei vecchi amici possa aver avuto la bontà d’aspettarmi, chissà dove, niente di più”.
Inanellava queste rade, gentili parole con il fare solito, senza mai lasciare nervi scoperti, maledettamente vago, riferendosi a “cari amici” forse perduti, senza che mai la punta di un ricordo, per quanto minuscola, potesse affiorare oltre il velo. In compenso nelle ultime parole il velo sembrava essere, se non lacerato da qualche parte, diventato più sottile. Non guardava infatti più me e quegli occhi, un minuto prima pronti a raccogliere ogni brandello della storia di Koeller, di sua moglie e delle sue camicie, cadevano in un vuoto. Trafiggevano me e la tela del camion e chissà quale crepa lontana nel cielo di piombo erano andati a riempire.

Mi tornò utile ancora l’incoscienza nel rompere l’ennesimo silenzio. “Avversari, Gottfried?”: avevo deciso, era quella la parola, era quello il filo del passato chiuso nella trama del discorso. E mi ero deciso a tirare quel filo, a sciogliere la trama, ed ero convinto che tirandolo non sarebbe solamente venuto fuori, ma che avrebbe portato la trama intera con sé.

Rispose, quasi subito, quasi se ne fosse accorto e che senza neanche aspettare la mia sfacciataggine avesse semplicemente continuato la frase. “Vede, caro Otto, anch’io forse come lei potevo contare su di un’arte. Ho avuto la fortuna di giocare a tennis per gran parte dei miei anni e senza timore le dico, Schulz, che altrettanta parte di quel che sono e di quel che ho vissuto m’è venuta da quell’arte. L’ho amata quanto ho ragione di credere che lei abbia amato la sua. E mi creda, tra gli istanti che posso dire felici nella mia vita, i pochi ancora intatti hanno l’odore delle palline ed il suono delle corde. Ho avuto grandi maestri, come il suo Koeller, e tante, tra le persone a me più care, le ricordo mentre stringono una racchetta”.

Mi ero smarrito nello stesso vuoto dove Gottfried aveva già perso lo sguardo.

Una mattina al Rot Weiss. Dieci anni e diecimila metri di stoffa prima.

Herr Koeller, i capelli già grigi ma le mani ancora salde, e rapide come poche, mi teneva come garzone e primo (unico) allievo da quando avevo quindici, forse quattordici anni. Ai tempi del Rot-Weiss avevo passato i diciotto all’inizio dell’anno. Per intenderci, oltre Frau Koeller, maestra al pari del marito, ero già il primo (e ovviamente anche unico) aiutante. Un sarto fatto e finito. Ed eseguivo già pezzi interi, a volte interi completi, già mi scorrevano tra le dita i tanto temuti, quanto venerati rotoli di cashmere e mohair, di seta e cotone inglese che da quando ero arrivato al negozio avevo sempre guardato, in punta di piedi, riposare sugli scaffali più alti del deposito, col terrore di poterli rovinare anche solo con gli occhi.

Riuscivo a fare, in effetti, a quell’età, tutto quello che faceva Herr Koeller, nonostante lavorassi sui suoi disegni, sui suoi bozzetti, sulle misure e le ordinazioni che lui prendeva, sui tessuti che lui sceglieva e che solo lui poteva scegliere. Lui e nessun altro. Era lo stile del vecchio Christoph Koeller, da sempre. Le misure del cliente erano legge, le parole del cliente un po’ meno. Ma lo sapevano tutti, esattamente come sapevano che ogni volta sarebbe andato oltre ogni aspettativa. Era proprio per questo che tutti quelli con abbastanza marchi in tasca da poterselo permettere bussavano proprio alla porta vetrata all’angolo di Friedrichstrasse e non altrove. Oltre i vetri di quella porta valeva una sola regola, per tutti, clienti o sarti, mai scritta da nessuno. Herr Koeller lavorava sì su misura, ma su ordinazione solo fino a un certo punto. Per farla breve non c’era mai niente, neanche un bottone, di cui si potesse dire “senza dubbio, questo l’ha fatto Otto Schulz”.
Forse ero presuntuoso, forse. Presuntuoso o no, una settimana di marzo le paginette dell’agenda si riempirono troppo in fretta per un ordine da tre blazer arrivato giovedì sera al telefono. E il vecchio me lo disse, anche quello in stile Koeller, rompendo la regola di sempre come niente fosse stato. Mi disse semplicemente “Sono tuoi, Otto. Quei tre blazer sono tuoi”. Miei. Niente disegni, niente misure, niente modelli, solo un indirizzo.
Tra Charlottenburg e Schmargendorf, praticamente all’ombra del Grunewald, c’era il Rot Weiss Tennis Club.
Ecco perché Koeller non voleva perdere l’ordine. Gli eleganti signori che di solito facevano visita al negozio si dividevano tra i due circoli più in vista di Berlino: il Rot Weiss, per gli uomini d’affari, gli artisti e soprattutto i “von” e il Blau Weiss, da sempre ritrovo di maggiori, colonnelli e generali. E c’era di più, da lì non si sarebbe mosso nessuno.

Fu così che alle undici in punto di un venerdì mattina gli aggraziati cancelli di ferro stile secessione del Rot Weiss Tennis und Turnier Club, nel frusciare pigro delle foglie di quercia, decisero di aprirsi per la prima volta ad un ragazzo di Falkensee col metro a nastro e gli spilli nella borsa.
Forse ero in anticipo, non ricordavo, ma in mente avevo ancora, vivi più che mai, i colori di quel posto. Li avevo chiari davanti a me, forti e contornati come in una stampa. I larghi rettangoli polverosi e rossi come mattoni, le querce del Grunewald, la luce verde che brillava sul dorso delle foglie, i merletti d’ombra che posavano sui viali, il cielo freddo spazzato dal vento, il fondo secco, violento, azzurro dietro le foglie lucide e sui lati senz’ombra dei campi. Poi il bianco dei pantaloni, dei gilet, delle giacche, delle gonne. Ero un sarto e per la prima volta nella mia vita vedevo tutto quel bianco insieme, che non fosse quello puro e accecante di certe camicie, ma una serie infinita di sfumati tra l’avorio e il crema. In un certo senso, anche per via di come, di quanto e da chi veniva usato, ognuno di quei capi era bianco a modo suo.

Mi si fece incontro un vecchio socio in tenuta da gioco: “Lei dev’essere Herr Schulz, se non sbaglio”.

“Proprio così, mi hanno mandato per quei tre blazer”. Allora mi strinse, anzi, nonostante i capelli bianchi, mi stritolò la mano, sorridendo: “Ah! Eccola qui! Herr Koeller mi ha detto così bene di lei! Mi segua sul centrale. Il barone ha quasi finito il suo allenamento del mattino”. Per la verità ero abbastanza confuso. “Si sbrighi, Schulz, non vorrà perdersi il barone all’opera?”.

Affrettai il passo, ancora più confuso di prima, verso un campo affiancato da sei file di gradoni.

Ci sedemmo in silenzio. Due giovani, che dovevano avere forse qualche anno in più di me, scivolavano e colpivano sulla polvere rossa. Quasi sottovoce mi disse:

“Herr Schulz, lo vede, alla destra della rete? Un giorno potrà dire di aver visto giocare un campione! Quello è il futuro della Germania! Ha appena ventun’anni, ma ne stia certo, farà grandi cose!”.

Alla destra della rete c’era lui. C’era Gottfried. Di tennis non mi ero mai occupato eppure mi era impossibile non guardarlo: quasi ipnotizzato, anzi, dando un’occhiata in giro, mi era sembrato che facesse questo stesso effetto a tutti, anche dall’altra parte della rete. Volteggiava, scivolava, un movimento continuo, silenzioso, punteggiato dal rumore secco e costante della pallina, anch’essa bianca. L’orlo dei suoi calzoni lunghi era perfettamente stirato e bianco come tutto il resto, privo della sbavatura di polvere rossa che era normale si creasse e che i giocatori intorno avevano tutti. Lui no. Anche i calzini di flanella che scorgevo appena al di sotto dell’orlo sembravano puliti. Non riuscivo a spiegarmelo, e forse, in quel momento, se anche la suola delle scarpette fosse stata come nuova, non mi avrebbe sorpreso.

“La prima delle tre giacche è per Freiherr Von Cramm, le altre due per i compagni di squadra che avremo qui nei prossimi giorni. Preferiremmo i colori tradizionali del club e possibilmente il ricamo del nostro stemma sul petto. Per il resto mi affido a lei, conosco bene Herr Koeller, e se ha avuto tanta fiducia in lei da mandarlo qui al suo posto, io e il barone dovremmo essere davvero in ottime mani...”. Da quando Koeller parlava così tanto? Non importava, era la mia occasione.

E squadrai nuovamente il barone mentre colpiva l’ultima palla e si avviava a rete. Strinse la mano all’altro, sorridendo e scuotendo la testa. Poi venne verso di noi, stringendo le racchette sottobraccio. Stentavo a crederci, ma più si avvicinava più realizzavo che non fosse affatto sudato e che non avesse un solo capello biondo fuori posto. Se solo non ne fossi stato così profondamente colpito, giuro, l’avrei trovato quasi snervante. Riusciva a camminare con le spalle dritte e il collo eretto senza sembrare né rigido né finto, cosa che potrebbe parer facile e che invece elencherei tra le più difficili in assoluto da trovare in chiunque. Completavano la tenuta la polo infilata nei pantaloni e la cintura con i colori del club, bianco e rosso.

Così mi tese la mano per la prima volta, chiedendo scusa per essersi “fatto trovare in tenuta da gioco e così terribilmente in disordine”.
Poco più tardi, nella sala da carte presi le misure di quello che avevo scoperto chiamarsi Gottfried Alexander Maximilian Walter Kurt, Freiherr von Cramm, che mi pregò di chiamarlo solamente Gottfried non appena provai a rivolgermi a lui come barone.
La giacca su cui lavorai per il mese successivo, con visite continue al Rot Weiss e persino un invito a pranzo dal presidente, era un blazer di panno rosso a due bottoni, a metà tra il rubino e il granata. Al posto di vere e proprie righe verticali o di bande trasversali scelsi una specie di larga gessatura avorio rigata a sua volta, nel mezzo, da una sottilissima striscia a rilievo dello stesso rubino del panno. Foderai il dorso e le maniche di raso granata, cucii il taschino sul petto, a sinistra, con il ricamo dello stemma biancorosso e andai a consegnarla di persona, al club, consigliando di usare il fazzoletto per la tasca. Ma Gottfried non c’era. Mi portarono le sue scuse e mi dissero che era partito per la Francia e che il blazer gliel’avrebbero spedito.

Ecco chi era il soldato alla mia destra, ecco perché mi sembrava d’averlo già visto. “Mi perdoni, Gottfried, ma infine non ha risposto alla mia domanda: “E dopo la guerra?”.

“Dopo la guerra, mio caro Otto? Se avrò abbastanza fortuna penso che tornerò a giocare.”

 

Chi era Gottfried von Cramm

di Luca Bottazzi

Gottfried von Cramm è stato un famoso tennista teutonico dal gioco spumeggiante a tutto campo. La sua famiglia faceva parte dell’elite europea e dell’antica nobiltà tedesca dalla quale ereditò il titolo di barone. Nato in Germania nella Bassa Sassonia a Nettlingen il 7 luglio 1909, il barone von Cramm divenne eroe nazionale con le vittorie del 1934 e del 1936 al Roland Garros di Parigi. Alto, bello e biondo, elegante e colto, seduceva ogni genere di pubblico, inoltre, corrispondeva perfettamente all’immagine di razza ariana tanto cara all’ideologia del regime nazista. Tre volte finalista a Wimbledon dal 1934 al 1936, ebbe la sfortuna di affrontare due tra i più grandi giocatori di sempre, il britannico Fred Perry e l’americano Donald Budge. Ma fu un incontro di Coppa Davis tra Germania e Stati Uniti ad immortalare le gesta del barone nella galleria del tempo. Il 20 luglio 1937, prima di entrare sul palcoscenico del Centre Court dell’All England Club, von Cramm ricevette le raccomandazioni di rito da Adolf Hitler in persona. Il barone perse per 8-6 al quinto set la partita del secolo e il partito nazista, al quale non aveva mai aderito, lo arrestò accusandolo del reato di omosessualità, incarcerandolo. Nel 1939 grazie ad una rete di relazioni diplomatiche internazionali, alle quali partecipò anche re Gustavo di Svezia, von Cramm tornò libero. Nel dopoguerra terminò la carriera e divenne presidente della federazione tedesca di tennis. Nel 1959 sposò l’ereditiera americana Barbara Hutton e si spense a causa di un incidente stradale nel 1976 al Cairo. Nel 1977 fu inserito nella Hall of Fame di Newport. Nessuno come il barone Gottfired Alexander Maximilian Walter Kurt von Cramm ha incarnato il fair play e l’eleganza nel portamento sui campi da tennis. Per chi conosce la storia dello sport, la figura di von Cramm corrisponde a quella del perfetto gentiluomo.

Vorrei amare il tennis quanto lo ama Connors”.

Questa frase, cavata dalla bocca di una leggenda del tennis nonché rivale, quasi antagonista di Jimbo, e uomo dal non facile rapporto con tutti i suoi simili come John McEnroe, dà una vaga idea di quanto Jimbo potesse amare questo sport. Quel bizzarro concentrato di nervi, muscoli e chissà di quale altra diavoleria, evolutosi in più di vent’anni sul tour da arrogante ragazzino col caschetto ad eroe che combatte, armato di sola racchetta, l’unico avversario che nessuno è mai riuscito a battere: il Tempo. Di quanto lo potesse amare questo gioco diabolico, cattivo almeno quanto lui, quello che all’anagrafe di East St. Louis, Illinois, risulta essere Jimmy Scott Connors.

Per avere un’idea di quanto l’amasse (e di quanto lo ami) questo strano gioco, Jimmy, bisogna pensare ad un tennista capace di vincere la sua prima finale Slam a Wimbledon contro Rosewall, e di perdere la sua ultima semifinale agli Us Open, contro Courier. Una vita (che potrebbe anche essere la mia al momento) tra il 1974 e il 1991. Lo scrivo per esteso: diciassette anni tra il “muro di rose” che di appassire non ne voleva sapere ed il bruto Courier nel pieno delle forze. 8 titoli Slam in mezzo e 109 titoli vinti complessivamente in singolare, più di chiunque altro. Un’infinità di ore, giorni, mesi sul campo, di punti, game e set. Su tutti i campi più importanti del mondo, su qualsiasi superficie. È lui, infatti, l’unico ad aver vinto lo Slam a stelle e strisce sulle tre diverse superfici su cui è stato giocato. Erba, terra verde e cemento.

L’unico tennista mai esistito capace di ritrovarsi lì, incollato alla linea di fondo, con gli stessi gesti, la stessa identica rabbia, la stessa cattiveria a 18 anni come a 40, con la stessa cieca fiducia nelle sue armi, nel suo anticipo, nella sua risposta, nelle sue gambe, sulla terra come sull’erba, a far da contraerea ad Emerson come ad Edberg.

Players know: i giocatori cha hanno passato qualche annetto sul tour lo sanno, quanto sia difficile, sanno quanto sia difficile gestire la tensione, resistere alla delusione e incassare la sconfitta. Quanto quel campo sappia essere perfido, quanto riesca a distorcere i pensieri, a levare il fiato, a corrodere i legamenti, a sfiancare i nervi. Cosa voglia dire ripetere gli stessi gesti, tutti i giorni, ed avere a che fare per tutti quei giorni, per tutti quei lunghi anni con quella stessa maledetta pallina che riesce a fiutare l’odore della paura per il gusto di tramutarlo in errore.

Provateci, a farlo per quasi 25 anni. Provateci, ad infrangere, come uno scoglio, a farsi passare attraverso come oceani in tempesta tre decenni di tennis. Provateci e tornerete indietro all’inizio o a metà strada perché non eravate abbastanza cattivi, sporchi, arroganti e rabbiosi. Perché magari avevate il talento, perché forse avevate anche la testa, perché lavorando di più o di meno è possibile che siate diventati campioni, ma quando vi sarà bastato, quando ne avrete avuto abbastanza, vi fermerete ancora con un pezzo di strada, con qualche decina di match, con qualche nervo da tendere ancora davanti dicendo “poteva farlo solo quel bastardo di Jim”.

Tra pochi, pochissimi anni, tra molti meno di quanti crediamo, ci accorgeremo di aver sbagliato tutto (o quasi). Di aver preso la strada sbagliata e di averla percorsa correndo a perdifiato, senza nemmeno guardarci alle spalle, senza nemmeno provare a rallentare, con la sola, cieca voglia di andare il più veloce possibile. E scopriremo che forse indietro non si può più tornare o peggio, che non si riesce neanche a rallentare.

Le vedete quelle racchette frantumate al suolo? L’avete sentito lo stridere di quelle urla, lacerate, isteriche? Vi siete mai chiesti cosa mai ci potesse essere di così rabbioso, di così potente, a far bruciare la fiamma, dietro il carbone di quegli occhi? Vi siete mai davvero chiesti cosa potesse rendere ogni punto, ogni gesto una questione di vita o di morte, ogni istante di gioia incontenibile, ogni reazione fragorosa, plateale, contraddittoria, drammatica?
Cosa spingesse tutto, di quella donna, oltre tutti i limiti? I colpi, i record, le lacrime, i sorrisi, perfino i colori, i capelli?

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