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Vorrei amare il tennis quanto lo ama Connors”.

Questa frase, cavata dalla bocca di una leggenda del tennis nonché rivale, quasi antagonista di Jimbo, e uomo dal non facile rapporto con tutti i suoi simili come John McEnroe, dà una vaga idea di quanto Jimbo potesse amare questo sport. Quel bizzarro concentrato di nervi, muscoli e chissà di quale altra diavoleria, evolutosi in più di vent’anni sul tour da arrogante ragazzino col caschetto ad eroe che combatte, armato di sola racchetta, l’unico avversario che nessuno è mai riuscito a battere: il Tempo. Di quanto lo potesse amare questo gioco diabolico, cattivo almeno quanto lui, quello che all’anagrafe di East St. Louis, Illinois, risulta essere Jimmy Scott Connors.

Per avere un’idea di quanto l’amasse (e di quanto lo ami) questo strano gioco, Jimmy, bisogna pensare ad un tennista capace di vincere la sua prima finale Slam a Wimbledon contro Rosewall, e di perdere la sua ultima semifinale agli Us Open, contro Courier. Una vita (che potrebbe anche essere la mia al momento) tra il 1974 e il 1991. Lo scrivo per esteso: diciassette anni tra il “muro di rose” che di appassire non ne voleva sapere ed il bruto Courier nel pieno delle forze. 8 titoli Slam in mezzo e 109 titoli vinti complessivamente in singolare, più di chiunque altro. Un’infinità di ore, giorni, mesi sul campo, di punti, game e set. Su tutti i campi più importanti del mondo, su qualsiasi superficie. È lui, infatti, l’unico ad aver vinto lo Slam a stelle e strisce sulle tre diverse superfici su cui è stato giocato. Erba, terra verde e cemento.

L’unico tennista mai esistito capace di ritrovarsi lì, incollato alla linea di fondo, con gli stessi gesti, la stessa identica rabbia, la stessa cattiveria a 18 anni come a 40, con la stessa cieca fiducia nelle sue armi, nel suo anticipo, nella sua risposta, nelle sue gambe, sulla terra come sull’erba, a far da contraerea ad Emerson come ad Edberg.

Players know: i giocatori cha hanno passato qualche annetto sul tour lo sanno, quanto sia difficile, sanno quanto sia difficile gestire la tensione, resistere alla delusione e incassare la sconfitta. Quanto quel campo sappia essere perfido, quanto riesca a distorcere i pensieri, a levare il fiato, a corrodere i legamenti, a sfiancare i nervi. Cosa voglia dire ripetere gli stessi gesti, tutti i giorni, ed avere a che fare per tutti quei giorni, per tutti quei lunghi anni con quella stessa maledetta pallina che riesce a fiutare l’odore della paura per il gusto di tramutarlo in errore.

Provateci, a farlo per quasi 25 anni. Provateci, ad infrangere, come uno scoglio, a farsi passare attraverso come oceani in tempesta tre decenni di tennis. Provateci e tornerete indietro all’inizio o a metà strada perché non eravate abbastanza cattivi, sporchi, arroganti e rabbiosi. Perché magari avevate il talento, perché forse avevate anche la testa, perché lavorando di più o di meno è possibile che siate diventati campioni, ma quando vi sarà bastato, quando ne avrete avuto abbastanza, vi fermerete ancora con un pezzo di strada, con qualche decina di match, con qualche nervo da tendere ancora davanti dicendo “poteva farlo solo quel bastardo di Jim”.

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