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Il mese di aprile custodisce una delle ricorrenze più importanti dell’intera storia del tennis. Per l'esattezza il 22 aprile, data che sancisce l’inizio di una nuova era, il giorno in cui è nato il tennis Open l’organizzazione che tutti oggi conosciamo. Questo traguardo è stato il frutto di una lunga storia e di un processo particolarmente controverso. Un' evoluzione che ha radici profonde nell'età classica del gioco e per questa ragione la sua nascita la si deve principalmente all'unione di due elementi prorompenti: la leggenda (la madre) costituita dai grandi tornei e il mito (il padre) intramontabile di magnifici campioni.  

Fin dai suoi albori, il tennis è nato come disciplina praticata da gentiluomini e da gentildonne che si affrontavano esclusivamente per puro spirito sportivo. Questi appassionati erano dei semplici dilettanti dato che i denari per il loro sostentamento, nel caso in cui non fossero dei ricchi signori, veniva prodotto da attività lavorative che nulla avevano a che fare con le partite di tennis.

Questa consuetudine fu già in principio timidamente superata da alcuni tennisti appartenenti all’epoca dei pionieri. Su tutti spicca la figura di Richard Sears, primo campione americano che nel 1887 giocò una serie di esibizioni contro Tom Pettit, il maestro del Casinò di Newport. Questo fatto scatenò le proteste inglesi che definirono l’accadimento come attitudine da “liberto” non certo da gentiluomo. Di fatto, guadagnare soldi con il tennis era tollerato solo per chi si dedicava all’insegnamento, non per chi si cimentava nelle competizioni.

I ruggenti anni venti furono quelli della prima svolta. Furono i primi a sconvolgere l’intero sistema internazionale, creando un terremoto e una profonda frattura. Nel 1926 la prima stella del tennis a lasciare il dilettantismo fu addirittura una donna: la “Divina” Suzanne Lenglen. Nel 1927 la "Divina" giocò e vinse il suo primo match da “Pro” contro l’americana Mary Browne negli Stati Uniti. Sempre nel 1927, l’esempio della Lenglen fu seguito dall’americano Vincent Richards, compagno di Davis del leggendario Big Bill Tilden.

Incredibilmente anche nel tennis, la storia infinita più vecchia del mondo si è ripetuta, dato che fu Eva (Lenglen) a cogliere per prima la mela per porgerla ad Adamo (Richards). Questi fatti comportarono l’espulsione del tennis da parte del C.I.O. dai giochi Olimpici del 1928, il "Paradiso Terrestre" dello sport. Pertanto, la federazione internazionale di tennis (allora I.L.T.F.) escluse da ogni sua competizione (Coppa Davis, Wimbledon, ecc.) e da ogni Club di tennis affiliato alle rispettive federazioni nazionali chiunque si convertisse al professionismo. Era iniziata l’era dell’inquisizione, la caccia all'eretico.

Nel 1931 Bill Tilden in persona passò tra i professionisti, vincendo il suo primo incontro al Madison Square Garden di New York contro il ceco Karel Kozeluh davanti a più di 15.000 spettatori paganti, e il tennis “Pro” spiccò il volo. Dopo Big Bill diversi campioni degli anni trenta seguirono le sue orme. Henry Cochet, Ellsworth Vines, Fred Perry e Donald Budge abbandonarono il dilettantismo mandando su tutte le furie e le rispettive federazioni nazionali. L'All England Club espulse per ripicca Fred Perry dai sui membri e questi rispose al Club spedendo per posta una manica della giacca sociale.

Da quel momento in poi diversi tra i più forti dilettanti presero coraggio e passarono nel circuito professionisti. Per dare un’idea concreta al lettore circa la questione “denaro”, basti pensare che vincere Wimbledon in quegli anni comportava un semplice rimborso spese; mentre quando il britannico Fred Perry passò al circuito Pro incassò 91.000 dollari solo nell’anno in cui fece il tour con l'americano Vines, verso la fine degli anni trenta.

Ad onor di cronaca va ricordato che a cavallo degli anni venti e trenta, oltre a esibizioni e tours, nacquero tre prove classiche del circuito professionisti. Una sorta di prove Slam definite per l'appunto Pro Slam che si svolgevano principalmente nelle città di Parigi, di Londra e di Boston. Nello specifico questi appuntamenti erano chiamati French Pro Championship, British Pro Championship e American Pro Championship.

Successivamente la tendenza di conversione al professionismo si consolidò ulteriormente con i campioni degli anni quaranta e cinquanta, per intenderci con tennisti del calibro di Pancho Segura, Bobby Riggs e Jack Kramer. Quest’ultimo proseguì addirittura l’azione intrapresa da Tilden razionalizzandola, formando una nuova troupe alla quale nel tempo si aggregarono fenomeni come Gonzales, Sedgman, Trabert, Hoad, Rosewall, Cooper e Gimeno, fino ad arrivare agli anni sessanta e al mitico Rod Laver.

Tuttavia, già negli anni cinquanta, i raffinati appassionati inglesi cambiarono atteggiamento nei confronti dei "Pro" sollevando per primi il disappunto sulla questione di un tennis orfano dei suoi più forti atleti. Gli amanti del gioco sudditi della Regina più potente del mondo, capeggiati da Ted Avory Presidente della federazione tennis Britannica, desideravano fortemente la fine del dilettantismo.
Essi ambivano a un tennis unificato, dove tutti i giocatori potessero competere nella stessa casa, sotto lo stesso tetto.

Nel 1962 vi fu una votazione per liberare dalle catene i professionisti. La Gran Bretagna contava sull’appoggio della Francia e degli Stati Uniti. Malgrado ciò i conservatori coadiuvati dal Presidente della federazione internazionale (I.T.F.), l'italiano Giorgio De Stefani, riuscìrono a mantenere il vecchio status soffocando il cambiamento.

I progressisti però non si diedero per vinti e a costo di essere estromessi dal mondo ufficiale del tennis decisero che l’All England Club avrebbe ospitato un torneo professionisti. Pertanto, nel 1967, il Presidente di Wimbledon Herman David realizzò sui prati più famosi del mondo un torneo Pro. La competizione fu vinta da Rod Laver su Ken Rosewall in cinque memorabili set. Il messaggio deflagrò come un rombo di tuono e le resistenze avverse all'innovazione furono colpite al cuore. Fu così che Wimbledon, la culla del gioco, sdoganò la creatura riprendendosi ciò che era suo: IL TENNIS.

A seguito del successo straripante dell’evento londinese si rese necessaria un’assemblea istituzionale a livello internazionale per votare sul progetto tennis Open. Ancora una volta le due opposte fazioni erano chiamate al duro confronto. Da una parte i progressisti, dall’altra i conservatori. La compagine dei progressisti era principalmente rappresentata dai soliti inglesi, dal campione americano Jack Kramer e dal giornalista francese dell'Equipe Philipe Chatrier. Mentre i conservatori contavano sull’italiano Giorgio De Stefani e sul vecchio campione francese Jean Borotrà.

La disputa fu vinta alla grande dai progressisti e nell’aprile 1968 il tennis tornò ad essere l’unica casa per tutti. In verità, alcune manifestazioni pro-dilettanti resistettero ancora qualche anno con qualche torneo e la Coppa Davis. Ciononostante il primo torneo open fu realizzato e giocato in Inghilterra nella località di Bornemouth, presso il West Hants Lawn Tennis Club.

Il momento era arrivato. L'occasione attesa dai professionisti da oltre quarant'anni; nessuno di loro volle rinunciare a sfidare i dilettanti che vantavano campioni della levatura di Emerson e di Santana. Pertanto Pancho Gonzales e la Troupe dei Pro al completo, pur rimettendoci di tasca propria vista la pochezza dei premi in denaro, sbarcarono oltre Manica per affermare ad ogni costo la superiorità della propria arte. Non importavano i denari, non questa volta. Si trattava di una questione ben più alta, una questione d'onore.

Il fronte azzurro dei tennisti italiani, sempre rimasti fedeli al dilettantismo e alla linea De Stefani, non colse lo spirito e l'importanza dell'evento disertando Bornemouth, rimanendo al Tennis Club Napoli ad allenarsi.

Infine, il primo storico quindici dell'era Open in quel di Bornemouth fu vinto per ironia della sorte da un dilettante, il norvegese Per Herik Dahl. Era il 22 aprile del 1968. La competizione certificò la supremazia degli ex Pro con la vittoria dell'australiano Ken Rosewall sul compatriota Rod Laver. Il resto cari amici è leggenda.

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