In un mondo forgiato da un connaturato ideale di soddisfacimento istantaneo, che degenera spesso e volentieri in una promiscua forma di individualismo compulsivo, il magnetismo suscitato da un impavido soggetto stacanovista può aiutare a rispolverare l’essenza del duro lavoro, così intenzionalmente stigmatizzato da molti.
Questo individuo corrisponde al nome di Juan Martin Del Potro, giocatore costantemente afflitto da avversità fisiche di gravità rilevanti (ricordiamo i tre interventi al polso sinistro, uno nel 2014 e due durante il 2015, più uno al polso destro datato 2010), tali da mettere fuori causa gran parte del parterre di tennisti sul circuito. L’abnegazione indomita dell’argentino ha prevalso sulle molteplici ostilità presentatesi sul fronte delle proprie aspirazioni verso i vertici della classifica ATP, facendo della risolutezza morale il suo mantra ideologico. In questo contesto risultano eloquenti le dichiarazioni rilasciate da Roger Federer, suo avversario in finale peraltro, risalenti ad un’intervista del marzo 2015: “Avrebbe potuto diventare numero 1 dopo la fine del 2009 ma l’infortunio gli ha negato questa possibilità. Sono certo che in quel periodo noi abbiamo (qui intesi i Fab Four) vinto tanto anche a causa dei guai fisici occorsi a Delpo e anche a Davydenko e Soderling.” Parole che risuonano, a posteriori, come una preoccupazione collettiva dei primi della classe rispetto all’insurrezione inesorabile di una corrente artistica e di pensiero in antitesi con il “manierismo” dell’epoca. Se è vero che Giorgio Vasari, noto pittore, architetto e soprattutto storico dell’arte italiano del XVI secolo, scrisse nella sua monumentale opera “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” che per via della copiosa quanto geniale produzione rappresentativa di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, l’arte figurativa aveva assunto una dimensione superiore, un modello a cui tendere per gli artisti successivi, lo stesso concetto può essere traslato anche in ambito tennistico. I tre esponenti di rilievo del manierismo tennistico, ovvero Federer, Nadal e Djokovic, assumono rispettivamente, nell’ordine prestabilito poc’anzi, le veci dei maestri sopracitati, fornendo uno storico archetipo da destinarsi sia alla fruizione pubblica che alla funzionalità stessa della disciplina. Un ordine precostituito di certo non compatibile con i propositi primordiali di Del Potro, fortemente intenzionato a riformulare i canoni assodati della nobile arte del suo tempo. Un progetto ambizioso, originato dalla stupefacente vittoria allo US Open del 2009 (anche in quel caso a farne spese fu proprio Federer) sino ad arrivare alle tre finali nei Masters 1000 (Montreal 2009, Indian Wells e Shanghai 2013), all’atto conclusivo nelle Finals di fine anno del 2009 (nel quale fu sconfitto da Nikolay Davydenko per 6-3 6-4) passando per la medaglia di bronzo ottenuta alle Olimpiadi di Londra del 2012 e l’epica semifinale disputata contro Djokovic a Wimbledon nel 2013: risultati ottenuti nella fase pre-2015, anno che scandisce la cesura fra la prima e la seconda carriera della “torre di Tandil”. La parabola ascendente caratterizzante il post-2015, invece, ha un che di straordinariamente commovente sotto il profilo squisitamente umano: la riapparizione dell’argentino nel torneo di Delray Beach nel febbraio del 2016 di per sé aveva generato particolare entusiasmo presso gli addetti ai lavori per il solo motivo di essere presente ad una manifestazione ufficiale. Il primo squillo di avvertimento giunse in concomitanza con il torneo di Wimbledon nel giugno della medesima stagione quando, al secondo turno, estromise Stan Wawrinka per 3-6 6-3 7-6 6-3; in seguito si aggiunsero gli exploit delle Olimpiadi di Rio (in cui ottenne la medaglia d’argento, dopo aver eliminato sia Djokovic che Nadal), dei quarti di finale dello US Open e della prima memorabile vittoria dell’Argentina in Coppa Davis nel 2016; successivamente il ritorno nel penultimo atto di uno Slam nel 2017 proprio a Flushing Meadows sino a culminare con il rientro nella Top 10 e il primo fresco trionfo assoluto in un Master 1000 ad Indian Wells.
Un torneo, quest’ultimo, costellato da innumerevoli rinunce illustri tra le quali quelle di Nadal, Wawrinka, Goffin, Nishikori, Tsonga, Gasquet, Kyrgios, senza poi dimenticare Andy Murray (che a suo dire potrebbe già rientrare a competere in occasione di due challenger che si terranno a cavallo tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, l’uno a Glasgow e l’altro a Loughborough). Se a questi aggiungessimo anche le diverse delusioni rimediate da altri protagonisti, su tutti Novak Djokovic (sconfitto da Taro Daniel al secondo turno per 7-6 4-6 6-1) reduce ad ogni modo da un intervento al gomito destro molto delicato; seguito da Grigor Dimitrov (non ancora a proprio agio con la terza posizione in classifica mondiale e domato al secondo turno da Fernando Verdasco per 7-6 4-6 6-3); da Lucas Pouille (in grande spolvero dopo la vittoria a Montpellier contro il connazionale Gasquet e la finale a Dubai persa contro Bautista Agut, ha dovuto soccombere al cospetto di Yuki Bhambri con un doppio 6-4 al secondo turno); da Sascha Zverev (estromesso da Joao Sousa al secondo turno per 7-5 5-7 6-4); da Marin Cilic (regolato al terzo turno da Philipp Kohlschreiber in due comodi set per 6-4 6-4); da Dominic Thiem (fermato più che altro da un infortunio sul 3-6 6-4 4-2 rit contro Pablo Cuevas durante il loro confronto di terzo turno); da Jack Sock (uscito di scena per mano del pur sempre temibile Feliciano Lopez al terzo turno con il punteggio di 7-6 4-6 6-4); e da Tomas Berdych (destituito nel terzo turno dal giovane più performante in questo primo scorcio di stagione, ovvero Hyeon Chung per 6-4 6-4), la presenza dei Top 10 nel tabellone maschile risultava essere, già in occasione dei quarti di finale, un’esigua minoranza composta di soli tre membri rappresentativi della categoria (nella fattispecie si trattava di Federer, Del Potro e Anderson). Sia il numero 1 rosso crociato che il numero 8 albiceleste hanno proseguito i loro relativi cammini fino ad incrociarsi in finale, la 43° nella storia del torneo che si disputa dal 1974 seppur abbia avuto 5 sedi differenti (Tucson, Palm Springs, Rancho Mirage, La Quinta e Indian Wells). Il match si sviluppa secondo uno schema di servizi regolare, almeno fino al quinto gioco del primo parziale quando sullo 0-40, complice un errore di dritto di Federer, lo svizzero è costretto a concedere il proprio turno di battuta a Del Potro, il quale non manifesterà particolari problemi a mantenere il break di vantaggio sino all’archiviazione del primo set per 6-4. A partire dal secondo set in avanti i cambi di fronte improvvisi non si contano più, ad incominciare dal primo gioco nel quale il numero 1 al mondo riesce a scongiurare il peggio e a mantenere saldo il proprio servizio, per arrivare ai sette set point in favore di Roger (due sul 5-4 15-40; cinque nel tie break) intervallati dal match point non concretizzato da parte dell’argentino sul punteggio di 8-7 nel tie break della seconda partita. Il settimo set point, comunque, risulterà essere quello decisivo per il 20 volte campione Slam ai fini della conquista del set ed alla conseguente procrastinazione del verdetto al parziale decisivo. Un terzo set dominato dall’imprevedibilità e dall’isteria nevrotica dei due contendenti trova l’epilogo in un nuovo tie break che andrà appannaggio di Del Potro per 7 punti a 2, dopo che quest’ultimo è stato per ben tre volte ad un punto dalla sconfitta. La lunga rincorsa al primo agognato Master 1000 in carriera è finalmente terminata con il finale tanto auspicato dalla stessa “torre di Tandil”. Appuntamento adesso con il secondo Master 1000 della stagione: l’ATP di Miami, che potrebbe essere teatro di una riedizione della finale appena disputatasi in quel di Indian Wells tra Roger e Delpo.
Per quanto concerne il tabellone femminile, la vincitrice di quest’edizione del WTA Premier Mandatory di Indian Wells porta il nome di Naomi Osaka, giocatrice di origini sia haitiane che giapponesi, che in finale ha affrontato e sconfitto con il punteggio di 6-3 6-2 un altro giovane prospetto particolarmente interessante del panorama femminile, ovvero la russa Daria Kasatkina. Entrambe si sono rese protagonisti di numerose debacle inclite: Osaka ha estromesso in successione Sharapova (6-4 6-4), Radwanska (6-4 6-2), Vickery (6-3 6-3), Sakkari (6-1 5-7 6-1), Pliskova (6-2 6-3), Halep (6-3 6-0) e Kasatkina in finale come già anticipato; mentre quest’ultima ha avuto la meglio su Siniakova (6-2 5-2 rit), Stephens (6-4 6-3), Wozniacki (6-4 7-5), Kerber (6-0 6-2), Venus Williams (4-6 6-4 7-5) prima di arrendersi alla nipponica. La Osaka conquista così il suo primo titolo WTA e si attesta al numero 22 in classifica, bussando prepotentemente alla porta dei Top 20.