Restaurazione. Ecco la parola d’ordine del primo Slam dell’anno 2017. Infatti come in una moderna Vienna, la città di Melbourne è stata l’epicentro di un ritorno al passato con pochi precedenti. In quindici giorni di tennis a volte molto brillante, sono stati spazzati via i moderni Napoleone. Inoltre, come per incanto, nessuno alla fine ha più parlato degli sconfitti illustri, come se anche la loro memoria fosse stata eliminata dal torneo; tutti si sono concentrati, di nuovo, sugli “antichi” nobili.
Djokovic, Murray, Wawrinka, Kerber, Pliskova, Muguruza avevano cercato di impossessarsi, spesso riuscendoci, dei titoli Slam in palio ogni anno. Ma in questo mese di gennaio australe le vecchie potenze tennistiche hanno deciso che era ritornato il loro momento, riprendendosi le luci della ribalta. In realtà solo Federer battendo Wawrinka ha in prima persona estromesso dal torneo un vincitore Slam, ma ciò non toglie un briciolo di importanza all’avvenimento storico al quale abbiamo assistito. Serena Vs Venus e Nadal Vs Federer sono le due finali che tutti avrebbero voluto ma che nessuno avrebbe immaginato.
Poco importa se l’età media dei finalisti è di 34 anni, se di loro negli ultimi mesi si è parlato di più in previsione ritiro che di possibili vittorie. Eccoli lì ad insegnare ancora tennis ed esultare come poche volte hanno fatto nella loro carriera. Maestosi con i loro 60 titoli Slam (ovviamente nessun altra coppia di finali avrebbe potuto superare questo numero).
Come da tradizione la prima finale a scendere in campo è quella femminile. Le due sorelle Williams entrano nel campo blu di Melbourne Park alle 9.30 italiane, le 19.30 di una piacevole serata australiana. Al loro ingresso nel catino ribollente della Rod Laver Arena, gli astanti del mondo del tennis – e non solamente i pochi fortunati, e facoltosi, che sono riusciti ad accaparrarsi il biglietto della finale – sono consapevoli di osservare la Storia dello sport, e non solo del tennis, che si manifesta dinanzi ai loro occhi: una Storia personificata da due figure quasi mitologiche, due ragazze appartenenti all’Olimpo del nostro sport già da parecchio tempo.
Una vicenda umana, prima che sportiva, che affonda le proprie radici a Compton, il sobborgo di Los Angeles che ha l’ottavo tasso di criminalità più alto degli USA, stando ai report dell’FBI. Il sogno americano della famiglia Williams che si è avverato sul campo da tennis: prima quello pubblico di Compton dove papà Richard ha sgrezzato e plasmato le figlie nell’arte del gioco e poi quelli di tutto il mondo dove le sorelle hanno fatto incetta di record, da sole ed in coppia. Era il 1997 quando Venus Williams, agli US Open, raggiunse la prima finale Slam: da quel momento in poi l’epopea Williams non ha avuto sosta.
Per Venus, nata un anno prima rispetto a Serena, le vittorie Major sono 7, a fronte delle 14 finali disputate; l’ultima finale disputata, tuttavia, risale a Wimbledon 2009 e a Melbourne, nonostante la sua gloriosa carriera, non ha mai agguantato un titolo. D’altro canto per Serena la finale odierna rappresenta la possibilità di issarsi a quota 23 Slam, uno in più di Steffi Graf ed uno in meno della detentrice del primato Margaret Smith Court. I numeri, seppur strabilianti e a tratti clamorosi, mostrano solo in parte la straordinarietà di queste due atlete che hanno contribuito a cambiare non solo il gioco, ma la stessa percezione del tennis femminile: a tutti gli effetti possiamo parlare di un’era tennistica pre Williams e di un’ era post Williams.
A onor del vero, lo scontro tra le due superpotenze alleate non ha mai offerto uno spettacolo invidiabile; delle 28 partite giocate da avversarie ci ricordiamo sempre gli abbracci al termine dei match, il mutuo rispetto e la reciproca gratitudine: raramente, ma non potrebbe essere altrimenti, la posta in palio ha sopraffatto l’istinto sororale, la consapevolezza che, come esemplificherà nelle dichiarazioni post partita Venus Williams «Ogni sua vittoria [di Serena] ha sempre rappresentato anche la mia vittoria».
Già, la partita. Spesso, o quasi sempre, il match tra le due giocatrici, per i motivi che sono stati esposti, pare un’appendice del racconto; anche giornalisticamente si tende perlopiù a considerare lo scontro una sorta di parentesi necessaria tra un record ed il superamento del record stesso: non importa il motivo per cui Serena ha vinto - perché effettivamente la partita è stata vinta dalla sorella minore – la strategia impiegata, la difficoltà psicologica con cui ha ottenuto il successo. No, dal suddetto racconto dei record la partita viene lobotomizzata e sparisce, cedendo il posto alle consuete chiacchere mediatiche che sono alla ricerca di titoli sensazionalistici più che di analisi.
Beninteso, la finale di questa mattina era già scontata prima dell’effettivo risultato; Serena aveva tutti i favori del pronostico che non solo erano legati agli scontri diretti tra le due (16-11 e 6-2 nelle finali Major per Serena) ma anche, e soprattutto, per il fatto di essere ancora la giocatrice più forte al mondo, pur avendo perso il primato a favore della Kerber. Ciononostante l’unico ostacolo che poteva frapporre Serena alla conquista del sesto Australian Open rimaneva l’incapacità, o meglio la difficoltà, di reggere mentalmente la pressione del match, situazione che si è verificata più volte nel corso dello scorso anno, soprattutto in corrispondenza delle finali perse contro Kerber proprio a Melbourne e contro Muguruza a Parigi. Una pressione che si è fatta sentire specialmente nei primi game dell’incontro quando Serena ha perso il servizio per due volte su altrettanti turni di battuta; pur con un gioco modesto Venus rimaneva ampiamente in partita e, grazie agli errori della sorella riusciva a controbilanciare i pochi punti ottenuti con il proprio servizio.
In concomitanza del terzo gioco, però, Serena si scuote e rompe una racchetta, scagliandola al suolo dopo aver perso un punto: è il segno che qualcosa sta cambiando, Serena non è disposta a giocare un’amichevole, ma pure contro sua sorella è intenzionata a vincere. È uno snodo importante del match, seppure da molti giudicato ininfluente; un gesto così plateale serve a mostrare a tutto il mondo che Venus sul campo da gioco non è solo una sorella, ma essendo dalla parte opposta dalla rete è anche la sua avversaria, la sua antagonista.
Venere tende a comandare quasi sempre lo scambio, vuole finire il punto in fretta; gli errori gratuiti di Serena, però, iniziano a rarefarsi e il servizio, che fino a quel momento aveva dato più dolori che soddisfazioni, ritorna ad essere il colpo devastante che tutti conosciamo. Dal 3-2 per Venus, Serena inanella un parziale di quattro giochi a uno e, in 41 minuti conquista il primo set.
Il secondo set e pure la partita sembrano giunti al veloce epilogo quando la maggiore delle Williams si ritrova sotto 0-40 nel terzo game; sembra scontata la sorte che tocca a Venus, la straordinaria campionessa che durante la sua carriera da tennista più volte ha visto il circuito come una porta girevole. La stessa Venus che, dedita a svolgere più la stilista che la giocatrice, è spesso stata accusata di non prendere il tennis troppo sul serio. Beh, proprio questa Venus, con una ferocia mista a classe che raramente si vede in campo femminile conquista cinque punti consecutivi e si issa sul 2-1. Gli scambi si prolungano e, inevitabilmente, Venus ben presto deve cedere definitivamente il servizio a favore della sorella che, a questo punto, a in mano le sorti dell’incontro. Negli ultimi game Serena non concede più alcuna chance al servizio e, dopo l’ultimo errore della sorella maggiore crolla a terra, vittoriosa. A 35 anni batte l’ennesimo record (che peraltro già deteneva) divenendo la giocatrice più anziana a vincere uno Slam.
Di primati ve ne sono molti, ma di quest’argomento ne abbiamo già parlato in precedenza; ciò che rimane è l’abbraccio al termine della partita tra le due sorelle, con Venus che non solo si complimenta ma che visibilmente è contenta della vittoria di Serena. La più vecchia finale Slam femminile termina con la premiazione e con le parole commosse delle due protagoniste.
Una finale che ha rappresentato, di fatto, la restaurazione dell’Anciènt Regime di inizio millennio del tennis. L’ambizione, decisamente irrealistica, del Congresso di Vienna era quella di riportare i vecchi sovrani al comando degli stati, ponendo un freno agli ideali propugnati dalla Rivoluzione Francese; come sappiamo il periodo della Restaurazione ebbe vita relativamente breve: i sentimenti di democrazia e libertà non potevano essere messi a tacere e di lì a qualche anno si giungerà al periodo dei Moti che coinvolsero tutta Europa. Le due finali dell’Open australiano sembrano voler ripercorrere questo sentimento reazionario: il potere deve tornare in mano a pochi eletti. Chissà se, proprio come allora, la Restaurazione del tennis avrà vita breve. Chissà se questa stasi apparente non sottenda una rivoluzione ed uno sconvolgimento del tennis mondiale. La storia insegna che il progresso non può mai essere arrestato. Non ci resta che attendere.