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Per quanto riguarda il tennis, e altri cinque o sei sport diversi, nessuna porzione di territorio così piccola ha mai espresso e costruito un numero così alto di campioni assoluti come la California. Un caso eccezionale, quasi unico, dato che non si parla di buoni atleti o semplicemente di giocatori forti, ma di uomini, atleti, interpreti dello spirito e dell’arte del gioco come pochi, pochissimi.

Playground pubblici e impianti universitari californiani hanno visto crescere autentiche leggende come la Wills, la Marble, la Connoly e la King fra le donne, McLoughlin, Kramer, Gonzales, Smith, Ashe, Connors e Sampras fra gli uomini, solo per dirne alcune. In quell’irrequieto fazzoletto d’America tra l’oceano e il deserto, incarnazione più pura del sogno americano con tutte le sue contraddizioni, nell’ovest estremo dove il mondo ricomincia a girare è stato forgiato il mito del tennis a stelle e strisce.

Tra tutti i campioni nati o adottati da questa terra di frontiera per eccellenza, uno su tutti ha non solo rappresentato, meglio di chiunque, lo spirito di quest’ultima e vissuto il sogno americano, ma è stato lo spirito della California, è stato il sogno americano. Nonostante Sampras, nonostante McEnroe, Ashe e Connors, soltanto uno è stato Donald Budge, primo vincitore del grande slam (1938) nella storia del gioco. Il primo torneo vinto da autodidatta a tredici anni, la passione sfrenata per il jazz e (soprattutto nei primi anni di carriera) per hot dog e bevande con qualche bollicina di troppo, la vocazione per il basket e tante altre facce della stessa medaglia ci hanno restituito un personaggio quasi cinematografico che già, per forza, abbiamo l’impressione di conoscere. Abbiamo quell’impressione perché del tennista di Oakland ritroveremo in Sampras l’eleganza dimessa, in Ashe la sportività, in Connors, Mac e Agassi l’indole di combattente. Perché, magari, anche se non lo sappiamo, quando pensiamo al classico “sportivo americano” stiamo pensando a Budge.

Mettendo da parte, per il momento, il gioco nella sua pratica, i trofei e le partite, Budge ha sempre trasmesso quella sorta di semplicità, forse understatement, forse l’atteggiamento da ultimo arrivato che ritroviamo anche in molti altri americani. Quell’alone di incoscienza, forse ingenuità, di chi ha intenzione di spaccare il mondo sapendo di avere solo una racchetta per farlo. Nel caso di Budge, una Wilson di mezzo chilo, totalmente bianca e senza grip sul manico. Grip in cuoio da lui ritenuti “una trovata dei venditori per spillare qualche dollaro in più”. Una figura che, completata da aneddoti e storielle di dubbia attendibilità, trovava la sua massima esaltazione nel confronto con il barone Von Cramm, aristocratico e sofisticato, cresciuto in un’ex residenza imperiale tra cavalli, campi da tennis e buone maniere. Il contendersi dello scettro del tennis con il tedesco non faceva che porre l’accento sulla crescita nei parchi pubblici del californiano e sul suo essere “proletario” anche se amico di mezza Hollywood dopo il successo.

Si contrapponeva a Von Cramm, costruito sulla terra europea e dal gioco paziente, con il modello aggressivo già allora da cemento (al tempo ancora superficie da playground, non da torneo dello Slam) influenzato pesantemente da Tilden e Perry, poi portato avanti ed interpretato da tutti i grandi yankees della racchetta fino ad oggi. Quel gioco fondato sulla presa fulminea del rettangolo, imperniato sui grandi colpi, tanto micidiali da diventare deterrenti, da diventare quasi dei modi di dire. Nei thirties e nei forties la frustata di rovescio e la prima di Budge erano temute quanto dopo lo sarebbero stati il servizio di Sampras e di Roddick, quanto la risposta di Connors, la volée di McEnroe. Come oggi lo è la cannonball di Isner. Fateci caso, che siano tempi di dominio assoluto o in attesa di ricambio generazionale, troverete sempre almeno un americano con un colpo quasi ingiocabile sul circuito.

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