La storia del tennis e dei suoi grandi campioni dall’inizio dell’era open alla fine dell’uso delle racchette di legno
Il sessantotto fu una stagione particolare, emblema di un movimento socioculturale e di protesta che investì il mondo. Il tennis non poteva essere da meno e il momento tanto atteso verso il cambiamento arrivò in primavera. L’appuntamento da non perdere si trovava nella patria del tennis in Inghilterra a Bournemouth, dove si giocò il primo torneo dell’era open. Il 22 aprile 1968 erano tutti pronti ai blocchi di partenza.
I professionisti aspettavano quest’attimo da sempre. La sfida ai dilettanti per determinare il dominio sul tennis era la motivazione che li spinse ad abbandonare impegni contrattuali già in essere, pagando fior fiore di penali.
Malgrado ciò la posta in palio era troppo grande, era una questione d’onore che avevano dovuto soffocare per troppo tempo. Arrivati a Bornemouth i professionisti non calpestavano campi in terra battuta da anni e il torneo si giocava proprio sulla terra. Pancho Gonzales era giunto a questo appuntamento a trentanove anni suonati con tante battaglie sulle spalle. Ken Rosewall era prossimo alle trentaquattro primavere, mentre Rod Laver alle trenta.
Durante questo primo atto che pare una commedia teatrale, i professionisti ebbero un impatto complicato. Eppure al termine dei giochi ne uscirono a testa alta perché la finale fu vinta da Ken Rosewall su Rod Laver, in perfetto copione da circuito professionistico.
Il Roland Garros di Parigi fu il primo Slam open della storia e ripropose gli attori della finale di Bournemouth con il medesimo epilogo. Wimbledon, invece, pur riproponendo nella finale la sfida infinita tra Ken e Rod che arrivò al numero record di 144 incontri totali, ribaltò i due vedetti precedenti. Laver vinse e riprese la corona dei Championship che aveva dovuto abbandonare da imbattuto nel 1962.
Poche settimane dopo, ai Campionati Americani divenuti US Open, vinse il dilettante afroamericano Arthur Ashe, in un’atmosfera di forti tensioni razziali. “Il tennis è uno sport prevalentemente bianco e io provo che i neri possono fare altrettanto bene” dichiarava Ashe. Il flemmatico Arthur, primo campione a usare una racchetta in vetroresina, confermò poi nel tempo il suo talento diventando l’unico nero a vincere a Wimbledon.
Sempre nel 1968 il nero Arthur Ashe, ex studente della UCLA e tenente dell’esercito, insieme al suo algido compagno di Coppa Davis Stan Smith, passarono da dilettanti direttamente nell’era open senza spendere alcuna esperienza tra i professionisti. Questo fatto consentì a questi giocatori americani di poter competere in Coppa Davis.
Così non fu per l’australiano Fred Stolle ed i suoi giovani connazionali Tony Roche e John Newcombe, coppia di doppio formidabile autentici eredi di Sedgman e McGregor, che erano invece passati da poco al professionismo. Questo fatto non costituiva una differenza da nulla dato che la Coppa era stata esclusa dal cambiamento in atto e quindi vi potevano partecipare solo i tennisti che non avevano mai posseduto lo status di professionista. Dunque gli australiani rimasti repentinamente senza squadra furono depredati in Davis dagli americani nel 1968.
Ciononostante, l’inizio di questa nuova avventura “open” riservava ben più di un problema organizzativo per regolamentare il nuovo mondo della racchetta. In quel periodo per accontentare le TV e accorciare i tempi biblici delle partite, fu introdotta la sperimentazione nel punteggio del “tie breack”, un’idea dell’eccentrico miliardario yankee Jimmy van Allen. L’esperimentò ebbe successo e fu adottato dall’universale.
Contemporaneamente le principali sigle che organizzavano tornei erano il WCT, la NTL e il Grand Prix. Prontamente il WCT del petroliere texano Lumar Hunt assorbì la NTL e strinse una partnership con il Grand Prix che si avvaleva della guida di Jack Kramer, l’esperto ex promoter del tennis professionistico. Tra queste organizzazioni l’unica a sopravvivere a lungo nel tempo fu il Grand Prix che già dal 1978 iniziò ad assorbire il WCT che scomparse definitivamente sette anni dopo.
Nel 1969 Rod Laver, novello Michelangelo, scolpì la sua leggenda nel firmamento del tennis vincendo per la seconda volta il Grande Slam. Il primo e unico nell’era open in ambito maschile. Nessun altro giocatore era mai riuscito a elevarsi alle altitudini del rosso mancino d’Australia, ne mai ci riuscirà in futuro, almeno fino ad oggi. Eppure egli affermava “Ogni campione appartiene alla sua epoca, sei il più forte del periodo in cui hai giocato”.
In seguito il mitico Rod, pur cedendo il trono mondiale, riuscì a rimanere competitivo anche nella maturità della carriera respingendo gli assalti di giovani come gli americani Ashe e Smith, gli australiani Roche e Newcombe, il rumeno Nastase. Malgrado ciò John Newcombe, campione dall’intelligenza e dall’astuzia sopraffina come "Mastro" Fred Perry, raccolse lo scettro di Laver già da Wimbledon 1970.
Per dare un’idea al lettore del portata cambiamento che ha comportato l’arrivo dell’era open basta confrontare il premio di John Newcombe di 150 dollari nel 1967 a Wimbledon da dilettante con i 15.000 dollari della vittoria open nel 1970. Ciononostante Newcombe compartiva in quel periodo la scena con l’istrionico Ilie Nastase che dominava principalmente sulla terra. Il povero Ilie perse tre sfortunate finali di Davis fecendo coppia con il "Pigmalione" Ion Tiriac.
Nel 1970, il Grand Prix realizzò una prova finale che vedeva solo l’elite dei migliori otto tennisti del mondo competere per il titolo di “Maestro”. Questo evento, oggi conosciuto come le ATP Finals, ebbe luogo per la prima volta a Tokio dove vinse l’americano Stan Smith. Nel 1971 il WCT seguì l’esempio del Grand Prix realizzando le proprie Finals a Dallas in Texas.
Nel contempo, il buon Rosewall ancor più di Laver, invecchiava meglio di un “grand cru” bordolese d’annata, vittimizzando uno dietro l’altro i più giovani campioni. Per la cronaca chiedere conferma a Newcombe e a Nastase. Oltre a ciò, Rod Laver e Ken Rosewall furono protagonisti di magnifici incontri nelle finali WCT di Dallas. La loro ultima battaglia del ‘72 vinta da Rosewall per 7 a 6 al quinto set, in oltre cinque ore di gioco, rimane un “Cult” della storia del tennis.
Sempre in quegli anni, esattamente nel 1972 nasceva l’ATP, l’associazione dei tennisti professionisti, sull’iniziativa di Jack Kramer e Donald Dell. Quest’ultimo fondò in quegli anni l’agenzia ProServ che curava l’immagine e i contratti dei tennisti, un’idea che si contrapponeva sul mercato all’IMG di Mark McCormack, un avvocato di Cleveland.
Nel 1973 l’ATP dovette battagliare duramente per difendere i diritti dei giocatori contro la federazione internazionale (I.T.F.), boicottando il torneo di Wimbledon. Il fatto produsse nell’ambiente un trauma di grandi proporzioni, ma il risultato fu quello di spianare finalmente la strada al tennis open. Questo momento va ricordato in modo particolare perché costituì il punto di partenza dal quale è stato edificato il nuovo tennis a partire dalle classifiche che regolano le iscrizioni ai tornei e la disposizione dei relativi tabelloni.
La disputa costò a John Newcombe la possibilità di ribadire la sua supremazia, dato che quell’anno aveva vinto sia gli Open d’Australia che degli Stati Uniti. Malgrado ciò baffo Newcombe, insieme ai connazionali Rosewall e Laver, si tolse a fine stagione una grande soddisfazione sportiva tornando a giocare in Coppa Davis, che era stata finalmente liberata dai lacci dalla questione dilettanti e professionisti.
I campioni australiani, tutti allievi di Harry Hopman, si presentarono a Cleveland nell’Ohio affamati come squali bianchi e si avventarono sulla squadra americana di Stan Smith & Co, sbranandola per 5 a 0. Giustizia era fatta, gli ex professionisti si ripresero la Coppa a loro proibita dal sistema e depredata dagli americani nel 1968.
Va sottolineato che la Davis, dai suoi albori del 1900 al 1973, era stata vinta unicamente da quattro nazioni: Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Francia. Proprio i quattro paesi che organizzano le prove dello Slam. Dopo Cleveland la storia della Coppa cambiò, innanzitutto Rod Laver e Ken Rosewall non la giocarono più.
L’anno successivo la Davis andò quindi per la prima volta a un paese diverso, la ex colonia del “British Empire” del Sud Africa. Questa squadra era fondata da una coppia di doppio eccezionale di specialisti: Bob Hewitt e Frew McMillan. Specialisti che però dovevano vedersela con coppie formate da autentici campioni come i già citati Newcombe e Roche storici dominatori della specialità, i loro connazionali Emerson e Stolle, gli americani Smith e Lutz, la strana coppia Connors e Nastase, per non parlare di Laver e Rosewall, solo per citarne alcune. Grazie alla grandezza della Coppa Davis il tennis vedeva da sempre i grandi numeri uno in prima linea sia nei tornei di singolare che di doppio.
Tuttavia, proprio l’anno prima e per l’esattezza il 1974, esplose il tennis di un ragazzo dell’Illinois che vinse tre tornei dello Slam. Questi era James Scott Connors soprannominato Jimmy, in arte Jimbo. Questo campione mancino sconvolse la disciplina grazie al suo rovescio bimane, in pratica un secondo dritto. Con due dritti a disposizione Jimbo imprimeva una potenza al gioco di rimbalzo mai rilevata in precedenza e una intensità d’azione soffocante.
Jimmy Connors, evoluzione strabiliante dell’antenato Pancho Segura che combinazione era anche il suo coach, aprì la strada a un nuovo modo di interpretare il tennis imponendo la figura dell’attaccante di rimbalzo da fondo campo. Jimmy non riuscì a completare nel 1974 il Grande Slam perché non partecipò al Roland Garros a causa del World Tennis Team. Una manifestazione americana intercittà che distribuiva molti soldi attraverso una forma di esibizioni che tendevano a trasfigurare il tennis in una sorta di fenomeno da baraccone. L’esperimento bislacco ebbe poco seguito e chiuse i battenti.
Nella medesima epoca anche il tennis femminile fondò nel 1973 la propria associazione dedicata alla tenniste professioniste, chiamandola WTA. L’obiettivo fu raggiunto soprattutto grazie all’attività dell’americana Billie Jean King, la quale si adoperò con grande determinazione anche per ottenere la parità di riconoscimento e di guadagno rispetto ai colleghi uomini.
Intanto anche la Fed Cup, la Davis delle donne, si stava sempre più accreditando e l’equilibrio tra Australia e Stati Uniti che durava fin dal suo debutto, venne finalmente interrotto nel 1972 dal Sud Africa. La WTA a come l’ATP negli uomini, organizzò fine stagione le finali riservate alle migliori giocatrici del mondo in Florida a Boca Raton dove vinse sorprendentemente una teenager americana.
Oltre alle classiche giocatrici d’attacco di fine anni sessanta come l’australiana Court vincitrice nel 1973 del Grande Slam, l’americana King regina di Wimbledon, l’aborigena Evonne Goolagong e l’inglese Virginia Wade, si affermò in quegli anni una ragazzina della Florida di nome Chris Evert. Proprio la giovane americana che si era aggiudicata le Finals di Boca Raton nel 1972. Chris giocava un rovescio bimane fulminante come Jimmy Connors, del quale a quel tempo era fidanzata.
La Evert dominò quegli anni come solo Maureen Connolly aveva fatto nei suoi giorni migliori. Chris Evert, prodotto dell’accademia del padre in Florida, riportò il fulcro del gioco femminile a fondo campo, da dove tracciava fendenti e passanti velenosi. Attaccarla pareva essere un suicidio annunciato.
Nel frattempo stava nascendo una personalità che l’universo del tennis non aveva ancora conosciuto. Una sorta di figura messianica che veniva dal nord, forse dal Valhalla di Odino, ma non si trattava di Thor, si trattava di Bjorn Borg. Lo scandinavo dai nervi di ghiaccio roteava la racchetta non meno di quanto Thor facesse col suo mitico martello, e sbaragliò la concorrenza. Egli riuscì a tarpare ali e ispirazione all’argentino Guillermo Vilas, il poeta della racchetta, e imprigionò la ferocia di Connors nell’Ade del tennis.
Bjorn Borg ha sgretolato molti record, a cominciare da quello di Fred Perry a Wimbledon sollevando l’asticella a cinque titoli consecutivi. “Se hai paura di perdere non oserai vincere” era il suo motto. Egli è stato l’artefice della prima Davis svedese nel 1975 e dominatore assoluto del Roland Garros per sei volte, dove ha ceduto solo all’italiano Adriano Panatta che nel 1976 infilò la vittoria parigina ribadendola anche in Coppa Davis.
Malgrado ciò, durante gli anni settanta, gli US Open abbandonarono la storica superficie in erba, passando nel 1975 alla terra verde americana per poi atterrare quattro anni più tardi sul cemento del nuovo stadio di Flushing Meadow di New York. Così il Mayor a stelle e strisce abbandonò per sempre la sede aristocratica di Forest Hills nel West Side della “Grande Mela”.
Proprio durante questo periodo arrivarono due giovani fenomeni mancini. Il primo fu diretto sul pianeta delle donne. Si trattava di Martina Navratilova “from” Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca. Una giocatrice a tutto campo con predilezione per la volèe, attraverso la quale ha realizzato record incredibili. Il più impressionante riguarda le nove vittorie in singolare a Wimbledon.
Martina diventò l’amica e la rivale di Chris Evert. Le due campionesse si spartirono la tavola del tennis fino a quando la ceca non prevalse definitivamente. Nelle loro spire è stata stritolata una delle più promettenti giocatrici del momento, la povera Tracy Austin che abbandonò anzitempo l’arena del gioco. Mentre la giovane Hana Mandlikova, connazionale della Navratilova, riuscì a sfuggire alla presa soffocante aggiudicandosi alcuni titoli Slam.
A poca distanza dall’arrivo di Martina arrivò sul pianeta degli uomini il secondo fenomeno mancino, il giovane yankee John Patrik McEnroe. Un tennista dal tocco vellutato munito di un serve and volley travolgente. Un tennista di origine irlandese, nato in Germania, di nazionalità americana, dalla chioma rossiccia. Questo particolare gli costò il soprannome di “Red Mac”, esattamente come Maurice McLaughlin la cometa della California dei primi anni del 1900, ironia della sorte il padre del gioco servizio e volèe.
John McEnroe, nelle cui vene scorreva il sangue di Henry Cochet, si impose all’attenzione generale quando da membro della squadra universitaria di Stanford raggiunse dalle qualificazioni la semifinale di Wimbledon nel 1977 e per causa del suo status dovette rinunciare al premio in denaro. Egli è stato nel contempo antagonista di Jimmy Connors e di Bjorn Borg. Le loro battaglie sono diventate leggenda. Su tutte la finale di Wimbledon del 1980 dove tra un colpo di scena e l’altro vinse Borg per 8 a 6 al quinto. L’anno successivo sempre sul Centre Court avvenne il cambio di consegne e John McEnroe, per la prima volta, diventò campione dei Championship.
Sempre nel 1981 nell’ultima finale Slam giocata da Bjorn Borg avvenne un fatto importante che cambiò il corso della storia e dell’evoluzione dello sport del tennis. La vicenda avvenne in settembre a New York quando Borg e McEnroe si affrontarono nella finale degli US Open che aveva da pochi anni optato per la superficie in cemento.
Quella partita è stata l’ultima giocata in un torneo dello Slam maschile con le racchette di legno. I nuovi materiali erano pronti a intervenire nel gioco, mandando in pensione i vecchi attrezzi che fin dal 1877 avevano caratterizzato la disciplina. Gli audaci corpo a corpo e i leggendari duelli di sciabola e fioretto lasciavano il posto alle armi da fuoco.